Il Calcio, quello con la C maiuscola, sembra essere tornato
a Cagliari. E’ una fenomenologia da studiare, quella che si sta verificando
negli ultimi mesi da queste parti. Perché mai tanto entusiasmo per una squadra
che, numeri alla mano, veleggia comunque poco al di sopra della quota salvezza
e che ancora non ha vinto una partita sul proprio campo?
La risposta forse sta nelle due “Z” che sarebbero le
iniziali del suo allenatore. Un fenomeno mediatico che in Sardegna non è mai
stato troppo amato prima di sedersi sulla panchina rossoblù, perché scomodo, e perché
l’isola è comunque piena zeppa di tifosi o simpatizzanti juventini.
Ora invece pendono tutti dalle sue labbra. Labbra che
parlano poco e sempre con quel fare flemmatico che lo fanno sembrare un automa
Un poco che spesso è più tagliente di mille parole e raramente sconfina nelle
banalità. Ora tutto questo a Cagliari piace, perché il “rompiscatole” del
calcio italiano adesso è passato da questa parte della barricata. Si sa, i
tifosi sono volubili.
Ma non è solo questo. Si tratta di gioco del calcio, quello
che un tempo era uno sport e ora è sempre più un business dove i soldi che
girano sono tanti, e per certe partite non si sa quanto siano vere o
“combinate”. Un calcio dove ormai le grandi vincono sempre e vincono sempre le
stesse. Invece Zeman non vincerà mai nulla.
Però a Cagliari, rassegnati sul fatto che i tempi del ’70
sono ormai irripetibili nel calcio odierno, va bene così. Basta tornare in
massa allo stadio (almeno quello che ne è rimasto) e divertirsi, vedendo un
gioco propositivo che mancava dai tempi di Ficcadenti (ops… battuta), un
campionato giocato interamente dalla prima alla trentottesima giornata senza
tirare i remi in barca in primavera per ordini dall’alto. Basta vedere una
formazione scelta interamente dal suo allenatore, perché è pagato proprio per
fare la squadra e non per farsela “dettare” da qualcun altro. Basta veder
giocare contro le “grandi” senza genuflettersi e tentar di vincere, anche se si
perde perché magari giocano meglio loro.
Chi sa di non poter mai vincere trofei, si accontenta di
divertirsi con una partita di calcio, che anche se business miliardario resta
sempre uno sport con il quale distrarsi dal lavoro o dai problemi quotidiani.
Un’oasi, insomma. Un’oasi dove possano entrare tutti i giornalisti, e non solo
quelli “simpatici”. Un’oasi dove sia preferibile stare dentro l’evento
piuttosto che assistervi sopra una poltrona e davanti a una tv.
Sono le piccole oasi dove l’allenatore boemo dovrebbe sempre
lavorare. Quelle piccole piazze come Foggia, Pescara e Cagliari, dove non si
vincerà nulla ma magari ti accorgi che uno come Sau può segnare venti gol in
serie A, come puoi vedere Cossu andare in doppia cifra, scoprire un diciottenne
ghanese che potrebbe diventare il nuovo Nainggolan e notare che finalmente le
assenze di Conti possono essere rimpiazzate senza perderci troppo.
A Cagliari ci si accontenta di poco, con quel poco che c’è
in giro.